Come
esperienze negative alterano la risposta agli altri
GIOVANNA REZZONI & DIANE RICHMOND
NOTE E NOTIZIE - Anno XXI – 14 dicembre 2024.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a
notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la
sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
La
nostra società scientifica dalla sua fondazione presenta evidenze sperimentali
a sostegno della tesi che considera gli stati affettivo-emozionali come
registri di elaborazione dell’esperienza; secondo tale visione è ovvio che
un’esperienza negativa, in animali che non sono in grado come noi di imporsi un
comportamento adeguato a persone e circostanze in coerenza con i propri
sentimenti, possa determinare un’alterazione della risposta comportamentale
agli altri. Ma, almeno per due ragioni, l’opinione prevalente fra i ricercatori
non è questa: 1) perché la concezione implicita nel procedere analitico e
spesso riduzionistico della ricerca tende a isolare i risultati, confinandoli
nel ruolo di “risposta a un quesito”; 2) finora non sono stati condotti studi
per valutare specificamente se la qualità di un’esperienza (ad es. negativa)
pregressa possa influenzare e magari alterare la “risposta sociale”, ossia il
comportamento ordinario nell’interazione con altri individui della propria
specie.
Nella
realtà umana è un fatto perfino banale rilevare che eventi di un certo impatto
emotivo influenzano il modo in cui reagiamo alle manifestazioni emozionali o
affettive altrui, basti pensare che in psicologia dello sviluppo da sempre si
considera la reazione ad eventi negativi precoci un fattore fondamentale di
influenza sul carattere, ossia sulla parte della personalità impiegata nelle
relazioni interpersonali; ma, ad oggi, le basi neurofunzionali di questo
effetto sono ancora scarsamente note. Una sperimentazione animale interessante,
condotta da Federica Maltese e colleghi, ha rilevato che i topi presentano
risposte interindividuali divergenti (preferenza o evitamento) a membri della
specie in stato di stress, solo nel caso in cui essi stessi abbiano
fatto esperienza dello stesso evento negativo.
Lo
studio ha riconosciuto una base neurobiologica, che spiega il modo in cui
l’esperienza emozionale di un individuo influenza il suo approccio agli altri membri
della specie in uno stato emozionale negativo.
(Maltese
F. et al., Self-experience of a negative event alters responses to
others in similar states through prefrontal cortex CRF mechanisms. Nature Neuroscience – Epub
ahead of print doi: 10.1038/s41593-024-01816-y, 2024).
La provenienza degli autori è la seguente: Genetics
of Cognition Laboratory,
Neuroscience Area, Istituto Italiano di Tecnologia, Genova (Italia); Institute
of Neuroscience, National Research Council, Vedano al Lambro (Italia); Institute of
Neuroscience, Superior Council of Scientific Investigations, University Miguel Hernandez de Elche, San
Juan de Alicante, Alicante (Spagna); IRCCS Ospedale Policlinico San Martino,
Genova (Italia).
Non appaia
superfluo ricordare, soprattutto a beneficio del lettore non specialista, con
quali presupposti culturali si è svolta nella storia relativamente recente la
ricerca sulle basi cerebrali delle emozioni.
Attualmente,
dopo l’introduzione del modello delle risposte emozionali di Joseph LeDoux
(1999) centrato sull’amigdala negli studi sulla paura, si è avuto il
superamento della nozione classica di sistema limbico come “cervello
emozionale”, e si è assistito all’identificazione di numerosi circuiti
mediatori dei vari aspetti funzionali delle emozioni e del profilo funzionale
corrispondente a ciascuna delle emozioni elementari di base.
Tradizionalmente,
fin dal XIX secolo, si affrontava e si discuteva una questione ritenuta
fondamentale per capire la natura delle emozioni: quale fosse la loro origine.
Due scuole di
pensiero si sono contese il campo e hanno a lungo dominato in psicologia,
approdando poi alla visione neuroscientifica attuale: la prima, riconducibile
allo storico padre della psicologia americana, ossia William James, sosteneva
la genesi periferica delle emozioni; la seconda, rappresentata dal celebre
neurofisiologo e neurochirurgo canadese Wilder Penfield, era paladina
dell’origine centrale, e in particolare dalla corteccia cerebrale, delle
emozioni.
La dottrina
novecentesca dell’origine periferica contrastava la visione psicodinamica
dominante in psichiatria, che tendeva ad attribuire a processi psichici
inconsci l’avvio delle risposte emozionali. Ma le basi teoriche erano state
gettate da William James già nel 1884, in What
is an Emotion? (1884), un
saggio basato su introspezione e osservazione in cui veniva proposta, con
ragionevoli argomentazioni, questa visione: le emozioni sono percezioni viscerali
e originano nel corpo, dove generano riflessi nei vari distretti
dell’organismo; quando questi raggiungono la nostra mente, vi costruiamo su una
“storia”. In altri termini, James riteneva che ciò che chiamiamo “emozione” non
è altro che l’interpretazione mentale degli stimoli viscerali percepiti.
Wilder
Penfield con vari collaboratori, fra cui ricordiamo Rasmussen, con la
stimolazione della corteccia cerebrale di pazienti scalottati
svegli (anestesia locale) durante l’intervento per il trattamento dell’epilessia,
aveva definito mappe somatotopiche sensitive e
motorie, e le aree corticali della parola grazie a vasti campioni, in studi
pubblicati in un lungo arco di tempo (1947, 1959, 1968). Stimolando con un
elettrodo la corteccia limbica sull’amigdala provocò nei probandi gioia,
rabbia, commozione e cordoglio. Penfield ritenne questa la prova definitiva
dell’origine cerebrale delle emozioni.
Si ritengono
prove a sostegno della tesi di James: la scoperta di processi non coscienti
avviati da stimoli viscerali ed esopercezioni, la scoperta
dell’autonomia (relativa) del sistema nervoso gastro-enterico, gli studi di Candace
B. Pert (1970-2003) sul controllo periferico delle
emozioni.
Si considerano
prove a supporto della tesi di Penfield: gli studi di Walter Cannon (Wisdom
of the body, 1927; studi degli anni ’30 e ’40), di Selye, Papez, McLean ed
altri (1946 – anni ’70), la dimostrazione di encefalizzazione e controllo delle
emozioni in pazienti split-brain, e, infine, gli studi di Joseph LeDoux
(1965-2001).
Concludendo,
James e Penfield erano in parte nel giusto entrambi,
ma Penfield era più vicino alla realtà. La dicotomia derivava da limiti di
conoscenza e di concezione. Oggi sappiamo che un’emozione è fatta di
innumerevoli integrazioni centro-periferia, originate in genere da evocazione
percettiva, come nel caso dell’emozione che si prova alla vista di una
persona amata o di una minaccia per la propria integrità. Raramente si configura
il “caso di James”, ossia che stimoli viscerali, ad esempio associati a
o causati da aumento della pressione sanguigna arteriosa o da un
processo infiammatorio periferico siano interpretati come risposta emotiva a
un’esperienza di vita. Jamesiano sembra invece essere
il processo caratteristico della preoccupazione ipocondriaca: un piccolo dolore
o disagio viscerale innesca un’attivazione dei sistemi dello stress, con
un allarme vissuto come “paura di una malattia”.
Oggi
conosciamo l’importanza di alcune regioni corticali nella mediazione delle
emozioni, così come sappiamo che le emozioni evocate dalla percezione si
traducono nel pattern neuro-endocrino-viscerale grazie alla mediazione
di specifiche vie ipotalamiche.
Torniamo alle
emozioni riportate alle reazioni elementari in massima parte mediate dai
sistemi dello stress, tipiche della sperimentazione sui roditori, come
quella del lavoro qui recensito.
La
risposta interindividuale murina studiata da Maltese e colleghi è risultata
dipendente dall’estro nelle femmine e dipendente dalla dominanza
nei maschi.
Il
primo dato emerso per l’identificazione dei meccanismi molecolari che
determinano nel topo l’impatto della propria esperienza di stress sul
comportamento sociale interindividuale è emerso dal silenziamento
dell’espressione del CRH (corticotropin-releasing
hormone) dei neuroni della corteccia prefrontale
mediale (mPFC, da medial prefrontal cortex): il
difetto del peptide attenuava l’impatto dell’esperienza stressante pregressa
sull’interazione con gli altri. L’imaging del Ca2+ microendoscopico in vivo ha rivelato che i neuroni producenti
CRH della mPFC sono attivati di più verso lo stress degli altri,
soltanto a seguito della stessa auto-esperienza negativa.
Le
manipolazioni optogenetiche hanno confermato che la
più alta attivazione dei neuroni della corteccia prefrontale rilascianti CRH è
responsabile della conversione comportamentale dalla preferenza degli
altri al loro evitamento, quando questi sono in stato di stress,
ma soltanto dopo che i roditori protagonisti del comportamento osservato
avevano fatto una negativa esperienza stressante.
Questi
risultati forniscono un primo elemento caratterizzante il sostrato
neurobiologico sottostante il modo in cui un’esperienza emozionale individuale
influenza il modo di reagire, nel rapportarsi ad altri individui della stessa
specie in uno stato emozionale negativo.
Le autrici della nota ringraziano la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza
e invitano alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del
sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanna
Rezzoni & Diane Richmond
BM&L-14 dicembre 2024
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